martedì, novembre 27

La prima politica è vivere

All'università si imparano un sacco di cose.
Oggi per esempio un nostro professore ci ha raccontato con fare nostalgico il suo ricordo della contestazione studentesca degli anni '60 nella facoltà di architettura.
Così disse:
«Una generazione si scrolla di dosso quanto più può la generazione precedente. Ci trovavamo davanti a un mondo ereditato che volevamo cambiare, volevamo appropriarcene».

«Non può che esserci una polemica con la famiglia, perché la famiglia parcellizza, mentre uno si sente in una dimensione collettiva. La famiglia diventava un ostacolo. Da qui il grande piacere delle occupazioni, che superano i vincoli che ciascuno deriva dalla propria famiglia. Erano anche obiettivi fumosi e pretestuosi, ma la cosa molto importante era stare insieme».

«Diventare padroni del proprio destino!» Questa fu la grande conquista di quegli anni. E non importa che l'identificazione di sé nell'ideologia collettiva censurasse completamente i propri desideri, la propria esperienza, la propria stessa vita, perché «il soggetto in sé non è adeguato alla dimensione del problema».

Così ho pensato:
nel 1968 si affermava che “tutto è politica”. Questo lo si diceva dando alla frase semplicemente il significato opposto a quello che ora ha l’espressione “il personale è politico”. Voleva dire che per fare la rivoluzione si doveva rinunciare ai nostri bisogni personali, voleva dire nascondere i nostri sentimenti. (da Care compagne e cari compagni, 1978)

Si aggiungano altre perle storiche come «Agostino Gemelli era un fascista antisemita», oppure «Piazza Fontana fu un atto di terrorismo di stato fatto per fermare il fermento sociale», e ancora «Pinelli fu ucciso dalla polizia». Se non stavamo attenti ci mancava poco che ci credevamo davvero.

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