Tra sette giorni si vota e io me ne andrei al mare. Alla fine non ci andrò, al mare, e anzi starò due giorni chiuso nel seggio a fare il rappresentante di lista e a parlare di affluenza alle urne, di telefonini da lasciare fuori, di come sarei stato bene al mare, ma sempre con la spilla crociata sul petto.
Non è per l’antipolitica che me ne andrei al mare, o a sciare – meglio le ultime nevi degli ultimi atti del teatrino – ma per la politica. La politica che non c’è, lei chissà dov’è andata.
Qualcuno si è accorto della campagna elettorale? Sicuramente non chi pensa che la politica sia fatta dallo scontro di idee, chi ancora si illude sia animata dai dibattiti, dalle prese di posizione, dagli argomenti che convincono o non convincono, che diventano una croce indelebile qui oppure là.
Non se ne è accorto neppure chi pensava – esagerato – di andare in piazza a sentire il candidato che parla, che grida, si sbraccia, suda perfino, e dice qualche cosa, insomma la sua piccola visione di come stanno le cose, di come dovrebbero stare.
Non se ne è accorto nemmeno il bravo cittadino che passa le serate davanti alla tivù e ascolta uno per uno tutti i candidati. Sì, proprio uno per uno, perché i candidati non si incontrano mai, non discutono mai, forse nemmeno si conoscono. Perché se Walter entra nello studio di Bruno Vespa, Berlusconi sta già uscendo, e quando Mentana li invita al duello, è la fiera delle scuse: Silvio ha quasi sempre la partita del Milan, anche adesso che gioca solo la domenica, Walter la presentazione di un libro, oppure un cineforum.
Non si incontrano ma si scontrano. Sui giornali si danno dei bugiardi e dei disperati, ma come quei bambini che cinque minuti dopo ne combinano una insieme.
Che si vota non me ne sono accorto nemmeno io, che credevo che alle elezioni avrei votato: avrei scelto chi mi rappresentasse, avrei indicato chi – la persona, proprio lei – che delegavo per conto mio, per conto della mia comunità, per conto di chi difende quel che difendo io. Invece non si vota.
Si certifica, si sancisce, si convalidano dei nomi, ben redatti, con attenzione, dalle segreterie dei partiti.
Come tutto questo non bastasse – in Italia non basta mai – negli ultimi giorni il teatrino sta diventando farsa. Con un candidato, Pizza – nomen omen – che ha minacciato di far rimandare le elezioni – “Quali?”, ha chiesto qualcuno – perché ha avuto meno tempo dei suoi avversari per fare una campagna elettorale che non c’è. E non importa che all’estero si sia già votato, (tra l’altro con la solita compravendita di schede, ma questo non interessa a nessuno), non importa che il suo simbolo sulle schede non ci fosse. Fa parte del gioco, cambiare le regole in corsa.
L’altro giorno, tuttavia, è successa una cosa strana e qualcuno, per un poco, non si accorgeva che si vota. Perché tra sette giorni si vota.
C’era un signore molto grasso che in piazza, a Bologna, e poi a Pesaro, a Milano, a Firenze, in Liguria, in tutta Italia, si ostinava a dire la sua. Non parlava di tasse e nemmeno di aeroplani. Vita, morte, aborto, cultura, civiltà… dicono i più informati. Ad ogni modo, niente paura, era il caso isolato di un pazzo. Di queste cose si deve tacere, hanno ripetuto in coro i due candidati maggiori. Gli altri non si sa, non hanno grande risonanza. E comunque quel che han da dire non conta. In fondo, si voterà lo stesso. “Si vota? Per che cosa?”, è ancora la solita domanda di un’ingenua signora. "Io bene non lo so. Ma lei, la prego, non vada al mare".