Ogni vista, anche quella sulla più desolata e insignificante provincia della banalizzazione globale, può assumere l’aspetto luminoso di un evento inaspettato e può mutarsi nello splendore di un’azione su cui non si può pretendere alcun potere o possesso e su cui è impossibile esercitare alcuna forma di conoscenza definitiva.
Ogni vista è immagine e come tale, nella prossimità rappresentabile di tutto ciò che ci circonda, mantiene intatta e intangibile la presenza smisurata e sconfinata della totalità, l’evidenza di un mistero che appare in essa e attraverso di essa si fa visibile.
Quando il fuoco dell’obiettivo è accordato sul segno dell’infinito, anche la fotografia, nell’abbraccio della sua vista, si riscopre capace di attraversare ogni nascosta profondità del reale, facendola emergere nel visibile della rappresentazione.
Attraverso lo sguardo di una persona, in quel punto e in quel momento, la speculare opacità di una fotografia può farsi diafana trasparenza di una luce sul mondo e sull’uomo che precede e crea sia il mondo sia l’uomo: una luce che soltanto nello sguardo di un uomo può generare un’immagine nuova e significativa del mondo. Scrive Pasolini il 13 maggio 1962: “… Solo il sole / imprimendo pellicola può esprimere / in tanto vecchio odio un po’ di vecchio amore”.
(Giovanni Chiaramonte, Dolce è la luce)
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