sabato, settembre 22
Lo scrittore, i ragazzi, i canti alpini
Besana, alta Brianza, una delle ultime serate di settembre. Nel giardino di una grande e antica villa signorile, una trentina di universitari intonano dei canti alpini davanti a un'insolita platea. In prima fila, Eugenio Corti. Accanto la moglie e qualche anziano parente. Belle rose, Monte Canino, La mia patria, Ai preat, Il testamento del capitano... interrotte solo da qualche commosso applauso e dal ricordo di don Gnocchi, cappellano militare al fronte e amico di una vita del grande scrittore cattolico che ci ospita. Dopo i capolavori de I più non ritornano, Il Cavallo Rosso, Gli ultimi soldati del re, a 86 anni Corti è ancora al lavoro. «Scrivo perché non so fare altro ormai», dice con profonda umiltà. «Nei miei lavori parto sempre dalla mia esperienza. Spesso mi vengono a trovare giovani come voi, che diventano i personaggi dei miei romanzi». Una vocazione che parte da lontano: «Io ho deciso di fare lo scrittore da bambino. Quando ho letto l'Iliade di Omero sono rimasto colpito, stracolpito, oggi si direbbe abbagliato dal fatto che quell’autore lì, sconosciuto, faceva diventare belle tutte le cose di cui parlava. È quello che mi ha conquistato e io ho detto: “Ecco, io devo fare così, devo fare come questo scrittore qui. Da grande mi metto anche io a scrivere cercando di trasformare in bello tutte le cose di cui parlo”, cioè di trascinare, quanto più possibile, bellezza nel mondo». E bello è sentirlo parlare. Le parole, a volte d'un italiano lontano, sono commisurate sempre alla vita (e all'etimologia). Prima di salutarci ci raccomanda: «Adesso tocca a voi. Siete dei "benemeriti" per quello che fate. Si vede che avete una certa impostazione nella vita. Avete davanti tutto il futuro per operare!».
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