Chi se non Frank Gehry avrebbe potuto realizzare il primo film-documentario sulla vita e le opere di un architetto contemporaneo? Maestro di comunicazione prima che di architettura, Gehry ha fatto delle sue strabilianti forme un vero marchio di fabbrica da esportare nel mondo.
Speravamo che ci smentisse, speravamo che il suo metodo progettuale non fosse davvero così casuale com'è casuale la forma che assume un foglio accartocciato, eppure è proprio così, e Gehry ce lo mostra con tutta la naturalezza e la spregiudicatezza che l'hanno fatto diventare grande. Questo vecchio ebreo (già, anche lui, come tantissimi degli artisti contemporanei) coi capelli bianchi e gli occhiali tondi che, insieme a collaboratori di nazionalità le più diverse, siede pensoso davanti a un modellino, e poi lo taglia, lo incolla, lo piega e si risiede soddisfatto, è un personaggio molto cinematografico, che si vede volentieri, anche per merito delle perfette inquadrature di Sydney Pollack, il regista e amico con cui Gehry intrattiene un fitto e appassionato dialogo (architetti e registi sono mestieri che hanno sempre qualcosa di interessante da dirsi).
Un film fatto di interviste. Ad artisti, architetti (Philip Johnson), musicisti (Bob Geldof ), critici d'arte, e - idea geniale - anche allo psicologo di Gehry (ma non si capisce chi dei due abbia più bisogno dell'altro).
Non crediamo come Gehry che una buona architettura sia quella che ci lascia subito a bocca aperta. Non crediamo nemmeno che la sua riuscita debba stabilirla il mercato (altrimenti si costruirebbe ovunque come stanno per costruire a Milano). Ci piace invece il suo modo di usare i materiali, di portarli alla massima possibilità espressiva, fossero anche una rete metallica o una lamiera grecata. E ci piacciono i suoi disegni, linee sinuose ma precise come spartiti musicali, schizzi che racchiudono in sintesi perfetta l'architettura che sarà. E tutto il resto è modellazione 3D, costruzione e assemblaggio, come in un'industria la cui linea di produzione è collaudata, sempre nuova e sempre uguale, a Bilbao come a Berlino, a Barcellona come a Los Angeles, alla disperata ricerca di forme inesplorate, di inediti spazi.
C'è un altro modo di dire qualcosa di nuovo? Crediamo di sì. Perché "il tuo linguaggio sarà unico se un accostamento inconsueto farà di una parola conosciuta una parola nuova" (Orazio). Ma di questo parleremo un'altra volta.
Per informazioni sul film clicca qui.
domenica, aprile 15
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1 commento:
Post molto suggestivo, scritto benissimo: sembra di essere insieme all'architetto mentre modella le sue "creature"...
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