Una bambina ferita allo Shifa Ospital di Gaza City il 27 dicembre 2008.È vero che ci si abitua a tutto. Non solo alle cose normali, di tutti i giorni, ma anche alle grandi gioie e alle grandi disperazioni.
Così è da qualche giorno ormai che leggiamo sui giornali le parole "guerra", "violenza", "terrore"; le parole "assedio", "combattimento", "feriti"; perfino la parola "morti", senza che esse siano più capaci di muovere qualcosa, di c'entrare con noi, di rompere la lontananza che ci separa da Gaza, Rafah, Erez, e ora anche Khan Younis.
Lunghi articoli, sottili analisi geopolitiche, dichiarazioni pro Israeliani o pro Palestinesi scritte dalle redazioni europee e americane difficilmente toccano il punto, riuscendo quasi mai a raccontare una realtà molto più grande e complessa. Poche le eccezioni (
qui Galli Della Loggia sul
Corriere del 3 gennaio,
qui la bella lettera di chi in Terra Santa ci vive sul
Sussidiario.net).
Di più fanno le fotografie. Non quelle bruttine e convenzionali che pubblicano i nostri giornali, ma
straordinarie come queste (che si trovano su siti come
Boston.com o sul
WallStreetPhotojournal).
Perché se lo vedi partire forse capisci che cos'è un missile Qassam. Se lo guardi sparare forse ti rendi conto di chi è un guerrigliero di Hamas. Se la scorgi piangere sulla bara del figlio, intuisci almeno un poco del dolore infinito di una madre. Se riesci a fissare il volto di un bambino che ha appena perso tutto e la vita se la tiene stretta nelle mani piene di sangue, forse ti rendi conto di che cos'è la guerra.